A cura di Antonino Taranto, Managing Partner di Tmdplex
Dissequestro finalizzato al pagamento di imposte per somme sottoposte a sequestro. Tassazione dei proventi/profitto di reato. Differenza tra sequestro ex dlgs 74/2000 e sequestro ex dlgs 231/01.
Commento alla Sentenza della Suprema Corte – VI Sezione Penale – n° 13936/22. La controversa questione del regime di tassazione dei proventi da reato è affrontata nella decisione citata in maniera completa.
Essa incide sulla richiesta di parziale dissequestro (finalizzato al pagamento delle imposte) di somme di danaro sottoposte a sequestro preventivo ai fini della confisca, ma in effetti ha il pregio di restituire una regola di condotta sulle ulteriori questioni; la possibilità di tassazione del provento e/o del profitto di reato e la differenza tra la disciplina del sequestro ex dlgs 74 /2000 (persone fisiche) e il sequestro ex dlgs 231/01 (persone giuridiche).
Orbene, la pronunzia in esame – resa in un giudizio avente ad oggetto i proventi lucrati dalla mediazione sulla fornitura delle mascherine anti Covid-19 da società cinesi, contabilizzati nel 2020 e, successivamente, sottoposti a sequestro – si segnala perché, sfruttando il silenzio normativo, adotta un importante principio di diritto quale esito di un giudizio di bilanciamento tra impianto punitivo e salvaguardia dell’iniziativa economica. Come noto, per molti anni, in Italia ha dominato l’orientamento secondo cui un arricchimento patrimoniale derivante da un’attività illecita, sia essa tale da un punto di vista civile, penale o amministrativo, non assumeva la qualifica di reddito e, pertanto, non era soggetto a dichiarazioni ai fini fiscali. Ciò in quanto, fondamentalmente, vi era il timore che la tassazione di proventi da reato potesse fornire elementi (indiretti) di legittimazione delle attività illecite.
Ulteriore argomentazione si rinveniva nella mancanza di una specifica previsione normativa che prevedesse tra le fonti di reddito le attività (appunto) illecite, nonchè l’inidoneità del reddito illecito ad essere oggetto di “possesso” in favore del reo, in quanto destinato, in ogni caso, alla confisca o alla restituzione all’avente diritto.
Orbene, nel corso dei primi anni novanta, al fine di adeguare la legislazione agli schemi operativi tendenti al reato il legislatore ha espressamente previsto, all’art. 14, comma 4, L. 537/1993 che “Nelle categorie di reddito di cui all’art. 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica del 22.12.86 n° 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria”.
A sostegno di questa svolta legislativa vi è l’assunto secondo il quale l’illiceità di una data attività sul piano giuridico non esclude la tassabilità del reddito da essa derivante, essendo il reddito un dato economico e non giuridico. Per questa ragione, qualsiasi ricchezza realizzi un soggetto, sia essa scaturente da attività lecite o legata a proventi da attività illecita, è soggetta a dichiarazioni ai fini fiscali e al pagamento del relativo tributo.
L’indicato art. 14, però, nel subordinare l’imponibilità dei proventi da attività illecita a due condizioni, ovvero – 1) possibilità di ascrizione ad una delle categorie reddituali previste dal sistema delle imposte dei redditi; 2) mancata soggezione dei proventi illeciti a sequestro ovvero a confisca penale – non prevede una specifica classificazione di tali proventi ma li riconduce alle regole ordinarie di identificazione del reddito imponibile.
Al fine di colmare tale lacuna con l’art. 36, comma 34 bis, D.L. 223/2006, si è stabilito che i proventi di cui trattasi sono da considerarsi, in via residuale, “redditi diversi”.
Questi sono una delle sei categorie previste dal TUIR (all’art. 6) e presentano una serie di particolarità essendo fortemente disomogenei e a carattere residuale rispetto agli altri della altre categorie. Vi sono ricompresi, ai sensi dell’art. 67 TUIR, una serie di fattispecie non accomunabili tra loro sul piano strutturale. Il carattere residuale, però, non deve essere interpretato nel senso di “chiusura”, in quanto le fattispecie sono comunque tassativamente indicate dalla legge.
Sul punto, è intervenuta anche una recente sentenza della stessa Cassazione, la quale ha affermato proprio che “in tema di imposte sui redditi, i proventi illeciti, anche ove derivanti da frodi fiscali, devono essere ricondotti alla categoria dei redditi diversi, sebbene non ricompresi nell’elencazione di cui all’ art. 67 del d.P.R. n. 917 del 1986, secondo quanto espressamente previsto dall’ art. 36, comma 34-bis, del d.l. n. 223 del 2006, conv. in l. n. 248 del 2006.” (Cassazione civile, sez. trib., 19/10/2018, n. 26440).
La legge, quindi, prevede, accanto all’obbligo di dichiarazione dei proventi da attività illecita, una deroga nel caso in cui questi siano stati sottoposti a sequestro o confisca penale.
Questi provvedimenti ablatori, quindi, ove intervenuti nello stesso periodo di imposta nel quale si realizza il possesso fiscale del reddito, escludono la tassazione in quanto viene meno la titolarità giuridica dello stesso, non più imputabile perciò al soggetto.
Sempre la medesima Cassazione ha precisato che: “fermo restando che potrà ritenersi integrato il reato di dichiarazione infedele di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4 qualora l’evasione di imposta riguardi redditi di derivazione illecita, la seconda parte del citato articolo individua una condizione negativa di imponibilità nell’ipotesi di spossessamento dei proventi illeciti che avvenga per effetto di sequestro o confisca. L’operatività di tale meccanismo, (…) è tuttavia subordinata alla circostanza che il provvedimento ablatorio sia intervenuto nello stesso periodo di imposta cui il provento si riferisce. Il sequestro e la confisca dei proventi, in altri termini, sono opponibili al fisco purchè intervengano nel medesimo periodo in cui si è verificato il presupposto imponibile, dal momento che solo in questa ipotesi detti provvedimenti ablatori determinano, dal punto di vista fiscale e in relazione al principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., una riduzione del reddito. Per converso, nessuna rilevanza assume l’apposizione di tali vincoli qualora sia disposta (…), contestualmente alla sentenza di condanna di primo grado”.
Come anticipato, argomento che merita attenzione risulta essere altresì quello relativo alla possibilità di dissequestrare parzialmente le somme provento da reato, al fine di consentire il pagamento delle imposte sul reddito maturato attraverso la commissione di attività illecite.
Orbene, sul punto, la Suprema Corte ha precisato, riportandosi al proprio costante orientamento, come, con specifico riguardo alle persone fisiche, non sia consentito lo svincolo – anche solo parziale – delle somme sottoposte a sequestro finalizzato alla confisca al fine di procedere al pagamento delle relative imposte, atteso che tale debito tributario deve essere onorato con moneta diversa (cfr. Cass. Sez. 3 n° 14738/19).
Ha precisato, infatti, che il sequestro strumentale alla confisca può essere legittimamente mantenuto fino a quando permane l’indebito arricchimento che si esaurisce con il pagamento dell’obbligazione tributaria. Con riferimento, invece, alla disciplina della responsabilità da reato dell’ente, la Corte evidenzia come la disciplina prevista dal D.Lgs. 231/2001 non contenga alcuna disposizione che consenta espressamente la possibilità di svincolare parzialmente le somme sequestrate a fini di confisca per pagare le imposte sui redditi illecitamente lucrati a mezzo della commissione del reato presupposto. Partendo da questo presupposto, quindi, effettua un’interpretazione costituzionalmente orientata del principio di proporzionalità della misura cautelare, affermando che il dissequestro parziale delle somme in sequestro per pagare il debito tributario debba essere consentito, «se necessario a evitare, per effetto dell’applicazione del sequestro preventivo e dell’inderogabile incidenza dell’obbligo tributario, la cessazione definitiva dell’esercizio dell’attività dell’ente prima della definizione del processo».
Il ragionamento che supporta la decisione in esame mira a evitare che il sequestro finalizzato alla confisca si traduca, già in sede cautelare, in una forma di interdizione definitiva dall’attività indipendentemente da un’affermazione definitiva di responsabilità dell’ente, così comprimendo in maniera sproporzionata la libertà di esercizio dell’attività d’impresa, del diritto di proprietà, del diritto al lavoro, in violazione dei supremi principi costituzionali ed euro unitari, mettendo a rischio, sostanzialmente, la stessa esistenza giuridica dell’ente.
Ma vi è di più: secondo la Corte, negare il dissequestro delle somme equivarrebbe a sovrapporre ingiustificatamente gli effetti di misure cautelari che sono strutturalmente e funzionalmente distinte all’interno della disciplina dettata dal D.Lgs. 231/2001, ossia il sequestro preventivo finalizzato alla confisca (art. 53) e l’interdizione dall’esercizio dell’attività (artt. 9 c. 2 lett. a) e 45).
Inoltre, l’art. 46 c. 2. del decreto stabilisce che ogni misura cautelare deve essere proporzionata all’entità del fatto e alla sanzione che si ritiene possa essere applicata all’ente. La giurisprudenza di legittimità è concorde nel ritenere che, in attuazione del canone di proporzionalità, il giudice, quando dispone una misura cautelare interdittiva o procede alla nomina del commissario giudiziale, debba limitare, ove possibile, l’efficacia del provvedimento alla specifica attività della persona giuridica alla quale si riferisce l’illecito.
Inoltre è pacifico che tale principio operi come limite non esclusivamente nella fase genetica ma anche in tutta la fase dell’efficacia della misura cautelare, consentendo al giudice “di graduare e modellare il contenuto del vincolo imposto, anche in relazione alle sopravvenienze che possono intervenire, affinché lo stesso non comporti restrizioni più incisive dei diritti fondamentali rispetto a quelli strettamente funzionali a tutelare le esigenze cautelari da soddisfare nel caso di specie”.
Il principio di proporzionalità e di gradualità non deve, in sostanza, comportare sacrifici maggiori di quanto strettamente necessario rispetto al fine perseguito. Con specifico riferimento al sequestro preventivo finalizzato alla confisca, il canone di proporzionalità deve, pertanto, orientare il giudice nella modulazione del vincolo in modo da evitare che lo stesso possa tradursi in un’esasperata compressione del diritto di proprietà e di libera iniziativa economica dell’ente attinto dal vincolo reale, andando ben oltre il fine perseguito, addirittura inibendo del tutto l’operatività economica del soggetto attinto dal sequestro, sino a determinarne la paralisi o la cessazione definitiva.
E quindi è previsto che : «in attuazione del principio di proporzionalità della misura cautelare, il giudice possa autorizzare il dissequestro parziale delle somme sottoposte a sequestro preventivo finalizzato alla confisca per consentire all’ente di pagare le imposte dovute sulle medesime quale profitto di attività illecite, quando l’entità del vincolo reale disposto, pur legittimamente determinato in misura corrispondente al prezzo o al profitto del reato rischi di determinare, anche in ragione dell’incidenza dell’obbligo tributario, già prima della definizione del processo, la cessazione definitiva dell’esercizio dell’attività dell’ente». In tali specifici casi «lo svincolo parziale delle somme sequestrate deve ritenersi ammesso alla stringente condizione della dimostrazione di un sequestro finalizzato alla confisca che, nella sua concreta dimensione afflittiva, metta in pericolo la operatività corrente e, dunque, la sussistenza stessa del soggetto economico e al solo limitato fine di pagare il debito tributario, con vincolo espresso di destinazione e pagamento in forme “controllate”».
Tali conclusioni, del resto, trovano conferma anche in altre disposizioni all’interno del D.Lgs. 231/2001, come ad esempio l’art. 53 c. 1-bis, che prevede, infatti, che se il sequestro, eseguito ai fini della confisca per equivalente prevista dal c. 2 dell’art. 19, abbia ad oggetto società, aziende o beni, ivi compresi i titoli, nonché quote azionarie o liquidità anche se in deposito, il custode amministratore giudiziario ne consenta l’utilizzo e la gestione agli organi societari esclusivamente al fine di garantire la continuità e lo sviluppo aziendali, esercitando i poteri di vigilanza e riferendone all’autorità giudiziaria. Infine, la pronuncia evidenzia come nella disciplina della responsabilità da reato degli enti l’ammontare della confisca e del sequestro preventivo alla stessa finalizzato, legittimamente determinato in misura equivalente al prezzo o al profitto del reato presupposto, può essere ridotto, nel corso del giudizio, per effetto di condotte riparatorie poste in essere dall’ente post delictum, quali la messa a disposizione del profitto conseguito ai fini della confisca (art. 17) e la restituzione del prezzo o del profitto del reato al danneggiato (art. 19 c. 1), così avvalorando la portata del principio di proporzionalità della sanzione che consente anche, in una prospettiva interpretativa costituzionalmente orientata, “di ridurre l’importo della confisca o anche di conformarne l’oggetto in modo da garantire il canone del minimo sacrificio necessario”.
Tali impostazioni, del resto, sono conformi oltre che ai principi costituzionali nazionali, anche a quelli sovranazionali/comunitari; la Direttiva 2014/42/UE relativa al congelamento e alla confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato nell’Unione europea, infatti, sollecita il rispetto del principio di proporzione invitando a non applicare la confisca qualora «essa rappresenti una privazione eccessiva per l’interessato, sulla base delle circostanze del singolo caso, che dovrebbero essere determinanti».