A cura della Dott.ssa Valentina Ambrosio
In una società di capitali a ristretta base di soci, qualora vengano accertati ricavi non contabilizzati, vi è la presunzione che gli eventuali utili scaturenti, siano stati distribuiti direttamente ai soci in proporzione alle quote/azioni possedute, con inversione dell’onere della prova.
Tuttavia, questa è una presunzione che può essere contrastata: i soci possono, infatti, dimostrare che gli utili non sono stati distribuiti ma invece accantonati o reinvestiti all’interno della stessa società.
È importante notare che per confutare la presunzione di distribuzione ai soci non basta sostenere che l’esercizio sociale si sia chiuso con perdite contabili; è necessaria, invece, una prova concreta da parte del contribuente dell’accantonamento o del reinvestimento dei maggiori utili.
Questo è quanto ha stabilito la Suprema Corta con l’ordinanza n. 26032 del 4 ottobre 2024: nel caso di società di capitali a ristretta base partecipativa, è legittimo presumere che gli utili extracontabili accertati siano stati attribuiti ai soci. Questo principio si basa sull’idea che, in tali società, vi sia una stretta correlazione tra la gestione societaria e i soci stessi, rendendo plausibile la distribuzione degli utili non dichiarati.
La Corte, in questo caso, ha quindi respinto il ricorso del contribuente, sostenendo le argomentazioni dell’Amministrazione finanziaria.
Il testo si riferisce ad una decisione dei giudici di piazza Cavour riguardante la possibilità per i contribuenti di dimostrare che eventuali maggiori ricavi non siano stati distribuiti, ma piuttosto accantonati o reinvestiti dalla società. Per fornire tale prova, non basta semplicemente affermare che l’esercizio sociale ufficiale si sia concluso con perdite contabili; è necessario, invece, fornire prove concrete e specifiche della destinazione dei ricavi.
Nel caso in questione, l’Agenzia delle entrate aveva emesso un avviso di accertamento nei confronti di un contribuente – socio al 50% di una società a ristretta base sociale, attribuendogli maggiori redditi in proporzione alla sua partecipazione. La Corte di giustizia tributaria di primo grado aveva annullato tale accertamento, ma la decisione era stata poi ribaltata dai giudici di secondo grado, che avevano validato l’operato dell’Agenzia.
Il contribuente ha così presentato ricorso per Cassazione, sostenendo che vi era stata una violazione e falsa applicazione degli articoli 2727 (presunzioni semplici), 2729 (presunzioni legali) e 2697 (onere della prova) del Codice civile, oltre all’articolo 38 del Dpr 600/1973, contestando l’utilizzo della presunzione di ripartizione dei maggiori utili tra i soci. L’Agenzia delle entrate ha risposto con un controricorso, difendendo la legittimità del suo operato basato su tali presunzioni.
Gli articoli del Codice civile italiano e il Dpr 600/1973 delineano, di concerto tra di loro, principi chiave in materia di prove e accertamenti fiscali.
Gli articoli 2727 e 2729 del Codice civile regolano l’uso delle presunzioni, distinguendo tra quelle legali e quelle lasciate alla discrezionalità del giudice, che devono essere gravi, precise e concordanti e l’art. 2697 c.c. stabilisce l’onere della prova, indicando che chi vuole far valere un diritto deve provare i fatti a suo sostegno, mentre chi contesta deve dimostrare i fatti contrari.
La norma tributaria, dal suo canto, consente all’ufficio accertatore di rettificare le dichiarazioni dei redditi delle persone fisiche se rileva che il reddito dichiarato è inferiore a quello effettivo o se infedele e le deduzioni o detrazioni non sono corrette. Questa rettifica può basarsi su presunzioni
semplici, purché sempre esse siano gravi, precise e concordanti, desunte dalla stessa dichiarazione, dal confronto con dichiarazioni precedenti, e da altre informazioni disponibili.
Queste norme complessivamente evidenziano l’importanza delle prove rigorose e della trasparenza nelle dichiarazioni fiscali.
La normativa descritta riguarda la possibilità per l’ufficio delle imposte di determinare il reddito complessivo di un contribuente basandosi sulle spese sostenute durante il periodo d’imposta, utilizzando anche elementi indicativi della capacità contributiva.
Tuttavia, ai contribuenti viene riconosciuta la possibilità di dimostrare che tali spese siano state finanziate con fonti di reddito diverse, esenti o soggette a ritenuta alla fonte, oppure da terzi. Inoltre, possono dimostrare che le spese attribuite hanno un differente ammontare o che i risparmi usati per consumi e investimenti sono stati accumulati in anni precedenti.
L’ufficio ha comunque sempre l’obbligo di invitare il contribuente a fornire dati rilevanti e avviare un procedimento di accertamento con adesione, come previsto dall’articolo 5 del Dlgs 218/1997 e dallo Statuto del Contribuente L. 212/2000. Questo invito permette al contribuente di presentare documentazione e chiarimenti per evitare una determinazione errata del reddito.
A fronte di tutto ciò gli Ermellini, nella ordinanza in esame, anticipando le argomentazioni della imminente e successiva sentenza n. 26473 del 10 ottobre 2024, hanno confermato la legittimità della presunzione fiscale secondo cui, nelle società di capitali con una ristretta base partecipativa, eventuali utili extracontabili sono attribuiti ai soci. I soci possono confutare questa presunzione solo con prove rigorose che dimostrino inequivocabilmente che tali ricavi non siano stati distribuiti ma accantonati o reinvestiti dalla società.
La Corte aveva ribadito questo principio già in precedenti sentenze (Cassazione 24820/21, 27049/2019 e 30069/2018) sottolineando che, se l’esercizio sociale si conclude con perdite, ciò da solo non è sufficiente a superare questa presunzione, in linea con il principio del divieto dell’abuso del diritto.
La Corte di Cassazione con questa interessante ordinanza ha, in definitiva, stabilito che la presunzione di distribuzione degli utili ai soci, non costituisce una presunzione di secondo grado e questo perché tale presunzione si basa sulla ristrettezza della base sociale e sul vincolo di solidarietà tra i soci, piuttosto che sui maggiori redditi accertati. Pertanto, la Corte ha confermato la decisione dei giudici di secondo grado, respingendo il ricorso del socio contribuente e condannandolo al pagamento delle spese legali.